6 agosto 1945 – 6 agosto 2015. Settant’anni dopo
HIROSHIMA – L’anniversario in cui tutto il mondo civile invoca la pace si profila quest’anno con non poche turbolenze. A Hiroshima, 70 anni dopo l’olocausto atomico, il premier Shinzo Abe osserverà anche lui un minuto di silenzio, ma il suo programma politico viene accolto da una parte significativa del Paese in modo scettico o ostile. È quanto accade alla Dieta in un dibattito che, come ha confessato al nostro premier Matteo Renzi, l’ha già impegnato per “330 ore”: le nuovi leggi sulla sicurezza da lui proposte consentiranno per la prima volta nel dopoguerra alle Forze di Autodifesa di intervenire in alcuni casi anche all’estero e senza una minaccia diretta al territorio nazionale. Per una parte del popolo che fu vittima dell’atomica, è una svolta e uno shock che rinnega la “leadership della pace” assunta dal Sol Levante negli ultimi decenni grazie a una Costituzione che, se pur dettata dagli occupanti americani, è stata fortemente interiorizzata. L’introduzione della possibilità di “Difesa collettiva” che entro la fine di settembre sarà sancita da un parlamento dominato dal partito di Abe appare ad ampi strati dell’opinione pubblica il rinnegamento di una conquista storica: l’audace rinuncia al diritto di belligeranza fondata in fondo proprio sulle ceneri di Hiroshima e Nagasaki.
“Mai più la guerra” è il titolo del convegno internazionale organizzato oggi dalla Comunità di Sant’Egidio a Hiroshima, coinvolgendo ampie fasce della società civile e religiosa: “una novità per la sua ampiezza, in Giappone”, afferma il segretario di Uomini e Religioni della comunità, Alberto Quattrucci, che dirà tra l’altro un “No al riarmo in Giappone e in tutti i Paesi” e “Il mondo deve cambiare, il mondo può cambiare! Penso alle nuove relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cuba ed al recente accordo sul nucleare con l’Iran: sembravano impossibili fino a poco tempo fa! Ma la storia è piena di sorprese”. Mai come oggi si scontrano in Giappone la dura Realpolitik del “si vis pacem para bellum” e l’atteggiamento di chi non teme di sconfinare nell’utopia invocando la doppia abolizione delle armi nucleari e della guerra.
La posizione ideologica di Abe può essere molto discutibile, ma le mosse pratiche appaiono ben fondate su un realismo politico a fronte dell’evoluzione della situazione internazionale: la crescita esponenziale della Cina (compresa quella del suo budget militare) si accompagna alla percezione diffusa di una sua nuova assertività che sconfina in atteggiamenti aggressivi; la Corea del Nord si nuclearizza; l’alleato americano, rappresentato a Hiroshima dall’ambasciatrice Caroline Kennedy, esige – dal suo punto di vista, in modo ragionevole – un ruolo più ampio del Giappone nella Difesa in cambio dell’impegno a difendere anche le isole Senkaku rivendicate da Pechino. Secondo lo schieramento pacifista che accorrerà a Hiroshima, proprio in questo contesto in evoluzione Tokyo dovrebbe evitare il rischio di contribuire a una “escalation” attuata con mezzi giuridici estremi (ossia un cambiamento di interpretazione della Costituzione anziché una sua, ben più ardua, modifica formale).
Su questa contrapposizione si innesta anche una diversa “narrativa” sulla storia recente del Paese. C’è un certo nazionalismo corrente che fa di Hiroshima e Nagasaki il lavacro del precedente imperialismo. Per altri, le città-martiri non autorizzano certo un vittimismo che copra le tragedie causate dalla precedente deriva militarista. Nell’attesissima dichiarazione che farà in occasione dell’anniversario della fine della guerra (probabilmente anticipata di un giorno, il 14 agosto), Abe sembra non voglia utilizzare i termini formali di scuse – e di riconoscimento del passato di invasioni aggressive – già espressi dall’ex premier Murayama 20 anni fa e ribaditi da Koizumi – in favore di espressioni più blande. Benché, poi, per i vertici della utility Tepco si profili finalmente il rinvio a giudizio per il disastro di Fukushima, proprio dal 10 agosto ogni giorno sarà buono per la riattivazione della centrale atomica di Sendai che segnerà il ritorno del Paese al nucleare civile. Pressioni delle lobby e volontà di mantenere una “deterrenza implicita” (l’opzione di costruirsi la bomba atomica in casi estremi futuri è vista in ambienti governativi come fondamentale) sembrano impedire al Giappone di rinunciare al nucleare civile.
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