da Tokyo, 7 novembre 2016, Stefano Carrer
Negli ultimi decenni la lingua italiana è molto cambiata in termini di frequenza dell’uso comune delle singole parole: circa un quarto delle parole più utilizzate è diverso da quanto accadeva alla fine degli anni Settanta. Più parole astratte, più anglismi, più volgarità e anche più espressioni del linguaggio dell’economia e della finanza. A sottolinearlo – in conferenze sulle recenti trasformazioni del lessico italiano all’università Waseda e all’Istituto italiano di Cultura di Tokyo (IIC) – è stato il più importante linguista italiano, Tullio De Mauro, professore emerito dell’Università di Roma “La Sapienza”, che viene in Giappone ogni 2-3 anni da 26 anni ed è stato insignito di una laurea honoris causa anche dalla Waseda (oltre che da altre prestigiose istituzioni accademiche internazionali). Non c’è da stupirsene, visto che, come ha sottolineato il direttore dell’IIC Giorgio Amitrano, la sua ricca bibliografia spazia da opere di linguistica teorica e studi di semantica a testi più divulgativi, che grazie alla loro intelligenza e chiarezza hanno offerto agli italiani preziosi strumenti di conoscenza e approfondimento della propria lingua.
Del resto l’attività del professor De Mauro non si limita al mondo accademico: «Ha svolto incarichi amministrativi e politici, ed è stato anche ministro della Pubblica Istruzione. In tutte le fasi della sua carriera ha mantenuto un costante e coerente impegno civile e la sua presenza pubblica, discreta e incisiva, unita alle sue competenze scientifiche, lo ha reso una figura importante della vita culturale italiana».
De Mauro: «La finanza è entrata nel linguaggio comune».
Tra volgarità ed economia. Nel vocabolario fondamentale, di altissima utilizzazione, rispetto al volume curato nel 1980 da De Mauro, le novità sono importanti. «Sono uscite parecchie centinaia di parole da questo livello, ad esempio quelle “concrete” come barba o erba, e sono entrate molte parole astratte o relative alla complessità sociale, alla finanza, e anche parolacce. C’è stato uno tsunami di involgarimento del nostro modo di parlare. Parole che esistevano ma che si usavano nella vita privata sono spesso usate in pubblico», rileva De Mauro. Tra le parole in ascesa – nelle Top 2000 del vocabolario fondamentale e nelle circa 2.750 di alto uso – figurano ad esempio euro, dollaro, gestione, controllo, associazione, diritto, legale, istituzione, tecnologia, esperto e cosi’ via. Ma non è che espressioni del linguaggio dell’economia e della finanza siano più utilizzate solo perché si parla tanto di crisi: «L’entrata di tanta terminologia economica e finanziaria nel vocabolario di alta frequenza è legata, a mio avviso, a una finanziarizzazione progressiva di tanti aspetti della vita italiana: meno produzione e più finanza». La tendenza si lega al parallelo dilagare degli anglismi, un fenomeno che riguarda anche le altre principali lingue del mondo. «La terminologia delle banche inglesi, del resto, si è imposta già ben prima delle ondate di anglismi degli ultimi 20-30 anni». Fare resistenza in questo senso è spesso una battaglia persa, afferma de Mauro: «Ci sono termini come accountability o stakeholder che a volte cerchiamo di tradurre in italiano. Ma il gioco non vale la candela e si ripiega sul termine anglosassone ben noto agli specialisti di tutto il mondo». Sul modo di esprimersi dei banchieri centrali, De Mauro ha scritto la prefazione al libro Gli oracoli della moneta. L’arte della parola nel linguaggio dei banchieri centrali (Il Mulino) di Alberto Orioli, vicedirettore del Sole 24Ore: «Molto interessante nell’esaminare i problemi espressivi di cui soffrono i governatori, tra il dire e il non dire: per loro il non dire può essere pericoloso quanto il dire. Camminano sempre su una lama affilata».
Costituzione e lessico. Il giudizio del linguista sul prossimo referendum costituzionale parte dall’osservazione di una differenza di linguaggio. «Per la Utet avevo fatto una lunga analisi, proprio in termini di presenza del vocabolario fondamentale, nel testo della Costituzione del 1948: linearità del periodo e complessiva elevata leggibilità rispetto ai testi correnti e non solo rispetto ai testi della legislazione, che spesso sono ridicolmente incomprensibili. È un modello di chiarezza, risultato di uno sforzo consapevole che fecero i padri costituenti per parlare in un modo il più possibile accessibile alla popolazione». Diverso il caso del testo della riforma. «Non solo non brilla di chiarezza ma brilla per eccessi di oscurità e di complicazione del dettato costituzionale, come è stato rilevato da più parti. Questo è certamente un difetto, rispetto ad altri aspetti che qualcuno può considerare pregi». E aggiunge: «Il vizio di molte leggi italiane, che le rende poco comprensibili persino agli addetti ai lavori, è che ogni legge richiama un po’ alla rinfusa molte leggi precedenti. Questo è quasi fisiologico nella legislazione ordinaria. Nel testo costituzionale di riforma è piuttosto bizzarro che articoli della Costituzione richiamino leggi correnti a supporto del dettato costituzionale. Io non sono un giurista ma questo mi pare uno sbaglio di grammatica grave». E qui il professore sembra riferirsi non a quella della lingua, ma alla grammatica istituzionale.
Maschile e femminile. Inarrestabile, infine, è la precisazione di genere in corso relativamente a molte parole che indicano professioni o cariche istituzionali. «Ricordo che quando ero ministro, 15 anni fa, c’era una forte divergenza tra le colleghe: alcune volevano essere chiamate ministra, altre esigevano di esser definite ministro. Ora mi pare che tutte vogliano esser chiamate ministre. E chi ricopre la carica di presidente della Camera vuole essere chiamata la presidente e non il presidente. Il fenomeno è in grande espansione – osserva De Mauro –. Noi più anziani a volte possiamo avere qualche difficoltà. Nei giornali dove le redazioni sono più giovani queste difficoltà vengono superate di colpo, femminilizzando tutto quello che si può e si deve. E quindi: la poeta. Ho notato anche la soldata, che mi spiazza un po’ rispetto a soldatessa. Ma il suffisso -essa suona un po’ spregiativo a un orecchio giovane».
De Mauro ha chiuso la conferenza ricordando però che l’italiano è la lingua più conservatrice d’Europa: il 78% delle parole che oggi diciamo risale molto indietro nel tempo: i settemila vocaboli della Divina Commedia hanno un tasso di sopravvivenza dell’82-84% e il 65% delle parole di uso comune si ritrovano già nel capolavoro di Dante.
© Il Sole 24Ore RIPRODUZIONE RISERVATA