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Archivio Articoli Contributi Fukushima 2011-2019 : diario di un giornalista sul campo
Contributi

Fukushima 2011-2019 : diario di un giornalista sul campo

Raccolta di circa 200 articoli sul triplo disastro, terremoto, tsunami ed emergenza nucleare che colpirono il Giappone orientale, il Tohoku, l'11 marzo 2011.

Ai reportage di Stefano dai luoghi devastati si intrecciano le analisi sulle conseguenze economiche, politiche, ambientali e sulle responsabilità delle autorità preposte a fronteggiare il disastro.

Prefazione dell’Ambasciatore Vincenzo Petrone

A Tokyo, i corrispondenti di grandi giornali e reti informative internazionali erano rimasti davvero in pochi, subito dopo il disastro della Centrale Nucleare di Fukushima quell’ 11 marzo del 2011. Gran parte dei giornalisti mandavano i loro servizi da Seul o da Kyoto perché in quelle città il rischio di contaminazione nucleare era nullo o molto più basso di quanto non fosse a Tokyo.

I giornalisti italiani, pochissimi anche in tempi normali, subito dopo Fukushima rimasero in due. Uno di loro si chiamava Stefano Carrer, un giovane professionista che aveva dedicato all’Asia e in particolare al Giappone, le sue migliori energie.

Per l’Ambasciatore italiano che in quei giorni difficilissimi doveva ogni sera suggerire ai 3500 italiani residenti se restare o andar via, avere in città un giornalista serio, informato, attivissimo e rispettato come Stefano Carrer era una benedizione del cielo perché grazie a lui almeno uno dei grandi quotidiani, Il Sole 24Ore, dava in Italia un quadro realistico del frenetico dipanarsi del dramma giapponese in quei giorni.

In Italia, soprattutto le televisioni, stavano invece allarmando in maniera viscerale il grande pubblico, e soprattutto i tanti familiari e amici degli italiani che vivevano in Giappone. Si stava innescando una spirale emotiva che partiva appunto dall’Italia e si riverberava in tempo reale sulla nostra comunità a Tokyo. Si stava mettendo in marcia un processo inarrestabile che avrebbe portato ad una evacuazione d’emergenza che a nostro avviso era ingiustificata sul piano fattuale e scientifico.

La buona sorte aveva fatto sì che il nostro addetto scientifico in Ambasciata, fosse un fisico nucleare proveniente dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica e grazie al suo contributo l’Ambasciata italiana a Tokyo riusciva a diffondere informazioni e vademecum d’emergenza che erano in assoluto tra i migliori e meglio informati nella comunità internazionale in Giappone.

Ma l’evidenza scientifica nulla poteva contro la spirale di panico che si stava innescando attraverso i media.

Fu proprio Stefano il giorno dopo il disastro nucleare, a consigliarmi di provare a contrastare direttamente l’ondata allarmistica facendo personalmente, come Ambasciatore italiano, interviste e dichiarazioni televisive e su carta stampata. Più ne facevo meglio era.

Ora, non è nella tradizione della diplomazia andare in televisione e sulle Agenzie tutti i giorni e più volte al giorno ma la Farnesina curiosamente mi autorizzò subito a espormi e così iniziò una girandola di attivismo mediatico che miracolosamente riportò pian piano tono e sostanza dell’informazione in Italia, su livelli di ragionevolezza e di accuratezza scientifica.

Come spesso accade durante le crisi, qualche volta capita di esagerare e una sera tardi, dopo aver ricevuto un rassicurante report dei nostri Vigili del Fuoco sui bassi livelli di radioattività a Tokyo, mi spinsi a sostenere in una dichiarazione all’Ansa, con l’obbiettivo di rassicurare parenti e amici dei connazionali, che in quel momento la radioattività ambientale a Tokyo era più bassa che, per esempio, in alcuni quartieri di Roma. Voleva essere una boutade rassicurante naturalmente.

Stefano era da noi quando feci quella dichiarazione e da uomo della comunicazione mi disse perplesso che in Italia la cosa poteva non essere compresa.

Pochi minuti arrivava un serioso e un po’ risentito lancio di agenzia dal Sindaco di Roma che solennemente rassicurava i romani che non erano a rischio di contaminazione nucleare.

Un altro ricordo di Stefano che vorrei condividere con quanti leggeranno questa bellissima raccolta è il video che mi mandò da Fukushima, uno o due giorni dopo l’incidente. Alle sue spalle, a poche centinaia di metri si vedeva la Centrale ancora avvolta nel fumo delle ripetute esplosioni che l’avevano distrutta.

Lo chiamai infuriato per il pericolo che correva ma mi assicurò ridendo che si sarebbe allontanato entro pochi minuti. Mai avrei pensato che pochi anni dopo il nostro giornalismo e noi suoi compagni di avventura in Giappone avremmo perso un professionista del calibro di Stefano Carrer che a Tokyo ha lasciato uno straordinario ricordo e, temo, un vuoto professionale mai colmato.

Grazie cara Giuliana, per aver messo insieme gli scritti di Stefano in questo bellissimo volume. Ci aiuterà a ricordarlo con affetto e nostalgia.

Vincenzo Petrone

Ambasciatore d’Italia a Tokyo dal 2008 al 2012

Bacheca per la ricerca dei sopravvissuti (Kesennuma, provincia di Miyagi, 15 marzo 2011)

Parte prima

Capitolo IV, [PI IV, 1]

Impossibile proseguire. Rientro obbligato a Tokyo, la sera del 13 marzo 2011 e immediata partenza per l’aeroporto di Akita, a nord, uno degli aeroporti del Tohoku.  Da lì, nella notte, in auto verso sud, in direzione di Kesennuma (200 km da Fukushima)

ALLARME RADIAZIONI. FUGA DEGLI STRANIERI DA TOKYO. ANCORA FORTI SCOSSE E PANICO, È CACCIA ALLE SCORTE ALIMENTARI

 15 marzo 2011, dall’aeroporto di HANEDA (TOKYO) [pubblicato online]

È panico e fuga degli stranieri da Tokyo, non ancora per i giapponesi. Dopo l’esplosione di questa mattina presso un altro reattore della centrale di Fukushima Daiichi, la radioattività fuoriuscita, la conferenza stampa del premier Kan (che ha ammesso gli alti rischi di danni per la salute umana), l’eventualità che la situazione si aggravi e le fughe radioattive investano l’area metropolitana di Tokyo e i suoi 30 milioni di persone ha indotto la popolazione straniera – consigliata in tal senso da molte ambasciate – a cercare di lasciare la metropoli ora che è possibile farlo con mezzi ordinari e non c’è ancora troppa congestione. È però difficile trovare posto sugli aerei diretti all’estero.             

Allo scalo di Haneda (per lo più dedicato ai voli interni), vari stranieri che non hanno trovato il biglietto per l’estero stanno prendendo quelli per il Kyushu, nel sud: intanto vogliono allontanarsi, poi sperano di lasciare il Giappone da Fukuoka che ha numerosi voli internazionali. Certo ci sono anche giapponesi che lasciano una città dove ormai molte cose non funzionano a puntino come sempre: dai trasporti alla facilità di approvvigionamento (fenomeni di accaparramento hanno lasciato molti negozi a corto di prodotti.                                                                                 

Ma la maggioranza dei giapponesi sembra ancora fidarsi ciecamente del governo: se il premier Kan ha dato i consigli del caso (stare in casa, non esporre la biancheria all’aria aperta, non utilizzare i ventilatori, eccetera) solo alle persone che vivono entro dieci chilometri dalla zona evacuata di 30 chilometri attorno ai reattori di Fukushima, il lavoro procede come sempre nella maggior parte degli uffici di Tokyo. «Non posso certo dire che ho paura ed evitare di presentarmi», dice l’ingegnere della Panasonic Takeshi Muraki, 49 anni, sul volo della Japan Airlines partito alle 13.50 da Akita, 700 chilometri a nord di Tokyo e arrivato allo scalo metropolitano di Haneda un’ora dopo (alle 7 ora italiana).                                                                                 

 Il volo era pieno: non solo persone che si recano al lavoro nella metropoli come se niente fosse, ma anche altre che ci vanno per i più svariati motivi. «Vivo a Akita con mio marito, ma mia madre sta male e quindi vado a trovarla», dice Kiko Fujiwara, 41 anni. Ma il marito non l’ha sconsigliata? «Al momento non hanno detto che c’è un vero pericolo per la capitale». Pensare che poco prima della partenza si è diffuso il timore che le condizioni meteo favorissero lo spostamento di una eventuale nube radioattiva proprio in direzione sud-ovest. «Noi giapponesi non siamo ancora al punto di cedere alla paura», afferma un altro passeggero, Y. (“Way”) Watanabe (61 anni, ingegnere meccanico) che però aggiunge in modo incongruo: «La conferenza stampa del premier? Penso che nemmeno lui sappia quello che sta succedendo». Beato lui che da questa convinzione dettata dal disprezzo diffuso per i politici non trova motivo di apprensione. Watanabe, comunque, come qualche altro passeggero, a Tokyo non resta: torna al luogo di residenza e lavoro nel sud, a Okayama… Anche per qualche altro passeggero la destinazione finale è un’altra: i vari aeroporti chiusi nella regione del Tohoku hanno annullato la possibilità di molti voli diretti. «Quando le autorità ce lo diranno, ce ne andremo», dice il tecnico informatico Tadashi Tozawa, 55 anni. Così tutti si sono imbarcati, anche se dagli schermi tv dell’aeroporto non si nascondeva il forte peggioramento della situazione a Fukushima.                                                                                                             

All’aeroporto di Akita (tra l’altro con i bar che non avevano più nulla da servire: nell’intero Tohoku, il Giappone settentrionale, è in corso una crisi di distribuzione e scarseggia la benzina) solo un cinese era preoccupatissimo perché non trovava voli almeno per l’Hokkaido, al fine di spostarsi ancora più lontano da Tokyo e in mancanza di possibilità di volare direttamente verso il continente. Insomma, pare che per i giapponesi sia il governo oppure la “kaisha” (la società per cui lavorano), a essere titolati a decidere anche quando avere paura. © Il Sole 24Ore RIPRODUZIONE RISERVATA

 [P1 IV, 2]

REPORTAGE

Arrivo a Kesennuma, alba del 14 marzo : “Il dubbio ingenuo che, dopo la tragedia, il cibo sia gratis è presto dissipato: «No, no, dobbiamo pagare». Sono file ordinate, nessuno si lamenta. È l’antica dignità di un popolo, e forse anche il riflesso dell’atavica rassegnazione a non chiedere troppo ai poteri pubblici”

NELLA CITTÀ FANTASMA IN FILA PER AVERE ACQUA. NUOVE ESPLOSIONI ALLA CENTRALE, ALLARME RADIAZIONI.

15 marzo 2011, da KESENNUMA (provincia di MIYAGI) [pubblicato sul quotidiano e online]   

«Non potevo credere ai miei occhi: ero su al golf e la tv mostrava la violenza dello tsunami. Non era un film: era la mia casa, la mia città, ad essere spazzata via». Kenro Chiba, 74 anni ben portati, manager del Kesennuma Country Club, è stato capitano della nazionale giapponese di canottaggio a otto alle Olimpiadi del 1960. «Proprio il team italiano ci eliminò, sul lago di Albano. Sono tornato a Roma l’anno scorso per le celebrazioni del cinquantenario», ricorda con un sorriso estraneo alla scena lì intorno: l’ex paradiso della pesca del tonno è una città-fantasma. Al pari della cittadina un po’ più a nord, Rikuzentakata, e di Minamisanrikucho a sud, dove ieri sono stati ritrovati un migliaio di corpi (sul totale di oltre 2mila nell’intera costa della provincia di Miyagi che da sola fa ipotizzare almeno 10mila morti). 

        
A Kesennuma una collina ha rappresentato la salvezza: molti hanno fatto in tempo a trovarvi rifugio. I barconi hanno invaso le strade scontrandosi con auto e furgoni. Appoggiati alle pareti degli edifici in muratura, gli unici che hanno resistito. Tutto quanto era legno e lamiera è crollato: i tetti a pagoda sono quasi intatti, ma giacciono a terra. Una pantofola in mezzo alla strada ricorda che tutt’intorno c’era vita. Alle prime luci dell’alba, la temperatura è sottozero: siamo al nord-est, l’inverno morde ancora senza pietà. A poco a poco, nella città-fantasma, dove solo la strada principale è stata sgombrata, arrivano segni di animazione. Alcune persone tornano dai rifugi di fortuna a vedere quel che resta delle proprie abitazioni. In cielo volteggiano gli elicotteri dei soccorsi con i generi di prima necessità.                                                                  

«Di dove siete, che fate?», si affaccia una signora al piano alto di un edificio sul porto. «Andate via, non avete sentito alla tv che c’è un nuovo allarme tsunami?». E lei? «Io non mi sposto da qui. Ho una persona anziana in casa che non può muoversi: nessuno è ancora venuto a spostarla». Non è l’unica a preferire di rimanere in una abitazione non agibile: anche Koichi Utsumi, 46 anni, non si stacca dalla sua casetta e dal suo negozietto, anche se all’interno il caos è assoluto e il rischio di crollo è imminente.                                                                                       

 Nessuno qui si premura di forzare gli sgomberi. La presenza di autorità e squadre di soccorso è minima. Passano i mezzi delle forze armate. Si teme un un nuovo terremoto (in giornata ci saranno forti e ripetute scosse). C’è un allarme nucleare: a poco più di 50 chilometri si trova la centrale di Onagawa. «Certo che sono preoccupato per la centrale atomica – dice un anziano passante quasi curvo –. Se ha problemi, chissà quando tornerà l’elettricità». «Allarme nucleare? Non ci pensiamo, il problema più urgente ora è la mancanza di coperte», afferma un altro signor Chiba (sembrano chiamarsi quasi tutti così da queste parti), un responsabile dei soccorsi al centro comunale che fa da rifugio di prima accoglienza (ne sono stati allestiti una ventina, per 10mila sfollati) e cabina di regia di una macchina organizzativa che appare approssimativa. La distribuzione di acqua potabile avviene in modo improvvisato: mestoli e secchi da stalla, imbuti di fortuna per riempire le bottiglie che la gente porta con sé. Nessuno si aspetta troppo dalle autorità, tutti danno per scontato di doversi arrangiare.                                      

 In una bacheca ci sono centinaia di messaggini scritti a pennarello: sono per la ricerca di familiari e amici. Telefoni e telefonini non funzionano, trovarsi e riabbracciarsi diventa un’impresa, una speranza. Il municipio non abbonda nel cibo, anzi. Verso i pochi supermercati aperti nell’entroterra si formano lunghissime code, i rifornimenti non arrivano, strade e ferrovie sono bloccate. Il dubbio ingenuo che, dopo la tragedia, il cibo sia gratis è presto dissipato: «No, no, dobbiamo pagare». Sono file ordinate, nessuno si lamenta.                                             

 È l’antica dignità di un popolo, e forse anche il riflesso dell’atavica rassegnazione a non chiedere troppo ai poteri pubblici. Intromettersi negli affari altrui è sempre negativo: di qui la mancanza di un senso di immediata solidarietà, anche verso chi avrebbe evidentemente bisogno di una mano (e non la chiede). In uscita da Kesennuma, la strada si blocca all’ingresso della baia di Mitsuiwa: la scena è apocalittica, l’acqua e l’odore del mare ristagnano, la violenza dello tsunami ha modificato la costa e sommerso le case, nessuno può più entrare.                                                                                                                

Tra la calma eccessiva della popolazione e la carenza evidente dell’azione amministrativa, a Kesennuma come nelle emergenze nucleari vecchie e nuove trova conferma la sensazione che ogni straniero prova in Giappone: qui non si è tanto bravi a gestire le situazioni straordinarie. L’approccio burocratico arriva all’assurdo. Davanti all’edificio diroccato della banca locale, tre impiegati fissano con qualche difficoltà, con lo scotch, un cartello scritto a mano: «Si avverte la clientela che il servizio è sospeso». Non è già fin troppo evidente? «È meglio che sia chiarito in modo esplicito», afferma il capo dei tre. Non scherza. Fa il suo dovere. © Il Sole 24 Ore RIPRODUZIONE RISERVATA

Parte Seconda

Capitolo I

[P2 I, 1]      

 Escalation di preoccupazioni. Pericolo radioattività. Un primo passo: avviata la stabilizzazione dei sistemi di raffreddamento nelle centrali. Il nuovo fronte: nelle province più esposte latte e spinaci irradiati oltre i limiti di norma

TORNA LA CORRENTE A FUKUSHIMA

Due reattori riallacciati alla rete elettrica, ma è allarme contaminazione alimentare

20 marzo 2011, da HACHINOHE (provincia di AOMORI) [pubblicato sul quotidiano]

 Il rischio di contaminazione radioattiva di alimenti e acqua – su cui ieri si è alzato un allarme internazionale – appare come l’ultimo dei problemi al crocicchio di uomini dall’aria abbruttita e depressa che bivaccano sotto un enorme capannone devastato nel porto di Hachinohe, all’estremo nord della costa investita dallo tsunami.

Si riscaldano al fuoco, che alimentano con la legna presa dai cumuli di materiali rimasti sparsi alla rinfusa tutt’intorno. Una signora armeggia intorno a un pentolone e distribuisce una brodaglia. Sono scaricatori, camionisti, manovratori. «Qui non ci interessa più di tanto quello che accade giù a Fukushima.

È tutto fermo: non abbiamo più lavoro e non sappiamo che fare», dicono. Da queste parti in verità lo tsunami non ha distrutto tante case, ma ha portato il deserto nel secondo porto del Giappone settentrionale, nodo di discreta importanza anche per i traffici commerciali internazionali. Aleggia un silenzio di morte tra un freddo intenso nelle norme spiazzo che ospitava i traffici di camion e container, ora completamente vuoto. Resta solo un peschereccio portato a quasi 200 metri dalla riva: sembra parcheggiato ad arte sull’asfalto. Ancora più curiosamente, non pare nemmeno danneggiato. Al largo incrocia la Uss Tortuga, che fa da base per gli elicotteri dell’«Operazione Tomodachi» (amicizia) della Marina americana nel portare ampi volumi di generi di soccorso lungo tutta la costa, valendosi anche della sua vicina base aerea di Misawa.

La logistica portuale di Hachinohe è compromessa e ci vorranno mesi perché torni a funzionare. L’imbuto creato da terremoto e tsunami all’export giapponese, in teoria, non è troppo stretto, perché i porti devastati smistavano solo 7% dei volumi totali. La nuova insidia riguarda non tanto lo yen (dopo l’intervento concertato dal G7) o gli intoppi produttivi e commerciali, ma piuttosto la diffusione dell’allarme sulla radioattività nell’ambiente, che potrebbe indurre i consumatori esteri di prodotti finali a voltare le spalle al Made in Japan.

Ieri intorno alla centrale di Fukushima Daiichi c’è stato qualche miglioramento: ha avuto successo, in particolare, l’allacciamento alla rete elettrica dei reattori 1 e 2, cruciale per raggiungere uno stato di stabilità dei sistemi di raffreddamento e sono intanto calati i valori di radioattività. Ma si è aperto all’improvviso – anche se non in modo inatteso e forse in ritardo – il fronte del rischio di contaminazione della catena alimentare: nel latte della provincia e negli spinaci coltivati nella limitrofa Ibaraki sono stati riscontrati – ha rivelato lo stesso portavoce del governo – livelli di radioattività superiori ai limiti normativi anche se non ancora dannosi per la salute. Stanno già scattando alcune contromisure che verosimilmente saranno ampliate e porteranno al blocco della commercializzazione verso aree esterne di una serie di prodotti agricoli.

Altro che la TPP (sigla diventata lo spauracchio dei contadini nipponici): a mettere in ginocchio l’economia rurale del paese non sarà certo il possibile avvio dei negoziati di liberalizzazione commerciale della Trans Pacific Partnership (su cui il governo prenderà una decisione entro giugno). Il problema in questo caso non è tanto per l’export (che nel settore ha volumi limitati), quanto per la prevedibile reazione dai consumatori giapponesi, ipersensibili a qualità e sicurezza alimentare.

Stanno crollando anche le prospettive di un altro settore, identificato dal governo come una nuova importante direttrice di stimolo alla crescita del Pil e alla rivitalizzazione di aree depresse: il turismo straniero.

Dopo il terremoto (ieri una nuova scossa di magnitudo 6,1), sta davvero arrivando il colpo di grazia con un’emergenza nucleare tale da annullare l’effetto di tutte le campagne “Visit Japan”. Ieri un’altra notizia in grado di moltiplicare l’allarmismo: la scoperta di tracce di sostanze radioattive normalmente non presenti, in particolare iodio, nell’acqua di rubinetto a Tokyo e in cinque province limitrofe. Le quantità minuscole non vengono giudicate     pericolose, ma nella città di Kawamata, a 50 km dalla capitale, [da Fukushima, capoluogo della omonima prefettura, NdC] hanno superato i limiti di legge.

Dal punto di vista di chi vi abita si tratta però di una nuova escalation di preoccupazioni, evidente anche nei comunicati dell’ambasciata italiana di Tokyo, che – oltre a continuare a raccomandare e agevolare l’esodo di connazionali via Osaka – invita a «evitare esposizioni prolungate all’aria aperta» in una città dove ormai si stima che siano rimasti non più di 200 italiani. Nella Tokyo della politica, infine, è sfumata la prospettiva di un governo di unità nazionale per l’emergenza, proposto dal premier Kan e respinto dal capo dell’opposizione Tanigaki. © Il Sole 24Ore RIPRODUZIONE RISERVATA

[P2 I, 2]

REPORTAGE

Per la mancanza di combustibile e di ghiaccio secco, “il Giappone è costretto a intraprendere la strada delle sepolture, che aggiungerà dolore al dolore”. “Nessuno si lamenta anche se – in un paesaggio ancora da Apocalypse Now – occorre pure mettersi in una lunghissima coda con in mano una piccola tanica”, per un po’ di kerosene per riscaldarsi

OLTRE 21MILA MORTI. I CREMATORI NON CE LA FANNO. GIAPPONESI COSTRETTI A SEPPELLIRE LE LORO VITTIME

20 marzo 2011, da YAMADA (provincia di IWATE) [pubblicato online]

Hanno già superato il numero di 20mila le vittime della catastrofe dell’11 marzo lungo le coste del Giappone nordorientale. Una di queste sta per essere inserita nel crematorio della cittadina di Yamada, una di quelle totalmente distrutte dallo tsunami. Un bonzo recita una breve litania e, tra gli inchini dei presenti, la cassa di legno chiaro viene spinta nel forno. La figlia del morto non ce la fa più e prorompe in un pianto dirotto.       

 Anche un’ora e mezzo dopo, a cremazione conclusa, resta in disparte seduta e sconsolata, lasciando alla sorella l’incombenza di prendere con i bastoncini i frammenti rimasti delle ossa per porli nell’urna quadrata, che poi viene avvolta in un telo bianco per essere portata a casa. Eppure quella figlia, nella tragedia, può ritenersi fortunata: ha potuto dare l’ultimo saluto al genitore secondo i riti della tradizione. Non per tutti sarà così: lo tsunami ha costretto a contingentare anche i funerali. I crematori non riescono a far fronte alla situazione, anche per mancanza di combustibile. Quello di Yamada sta continuando a operare dopo che una fornitura di kerosene di emergenza è arrivata da un’altra provincia, ma non può fare più di 5 funerali al giorno.           

D’altra parte, manca anche il ghiaccio freddo e altro materiale occorrente per tenere i deceduti in attesa per tanti giorni. C’è un rischio per la salute pubblica. Così il Giappone è costretto a intraprendere la strada delle sepolture, che aggiungerà dolore al dolore. Se infatti in Italia sono in molti, radicati nella tradizione cattolica, a guardare alla cremazione con un sentimento di silenzioso orrore, nell’arcipelago nipponico è la pratica opposta a suscitare una invincibile ripugnanza: meglio finire in cenere che in putrefazione. È quello che purtroppo sta accadendo a chi sta ancora sotto le macerie o lungo la riva del mare. Anche oggi le squadre della polizia e delle forze di autodifesa ne hanno recuperati parecchi. Alle case diroccate che ispezionano viene dipinto a volte un cerchio rosso per identificarle: spesso è difficile distinguere tra dove si è già rovistato e dove no, in mezzo a tanto sfacelo.

             
Le cittadine portuali di Miyako, Yamada e Otsuchi appaiono ancora come dovevano essere una settimana fa, salvo lo sgombero di qualche strada principale. Le barche finite sui tetti di case mezze distrutte restano ancora là. Idem le automobili schiacciate contro il primo ostacolo e finite in tutte le posizioni immaginabili: verticali, laterali, capottate, intrappolate sopra o sotto un cavalcavia. Desta impressione vedere una casetta trasportata di peso sul terrazzo di un albergo o un peschereccio sopra un viadotto, ma più ancora un ampio quartiere di Otsuchi: appare come Hiroshima dopo la bomba, completamente spianato salvo che per un edificio. In cielo, intanto, volteggiano gli elicotteri della Marina americana, che scaricano generi di prima necessità di cui c’è assoluto bisogno, visto che sono lontani dall’essere risolti i problemi degli approvvigionamenti, sia in quantità sia per la logistica via terra o via mare con i porti ancora sostanzialmente inagibili. La macchina dei soccorsi, comunque, sta dando segni di una ripresa di efficienza, dopo i gravi ritardi iniziali. In una palestra alla periferia di Miyako si raccolgono con solerzia le donazioni individuali e quelle aziendali, anche se poi si perde tempo a catalogarle e separarle accuratamente.

La gente vive questa tragedia con estrema dignità: non si sente un urlo o un pianto, anche se c’è chi rovista intorno alle macerie della propria casa alla ricerca di un figlio. Nessuno si lamenta anche se – in un paesaggio ancora da Apocalypse Now – occorre pure mettersi in una lunghissima coda con in mano una piccola tanica. Non è per la benzina (quelle sono code a parte, per un massimo di 3mila yen, 25 euro, o anche meno). È per ottenere un poco di kerosene e potersi quindi riscaldare nelle notti ancora polari del settentrione. Per questo, a domanda, gli tsunamizzati non fanno una piega sull’allarme nucleare e anzi in genere risultano a favore delle centrali atomiche: senza di loro, niente o poca energia. E a loro questa manca, da dieci giorni. Ma non imprecano contro il governo né si aspettano particolari aiuti. Il mare ha dato per tanti secoli la vita a questi villaggi di pescatori da poco affacciatisi alla modernità. Il mare ha tolto. Dieci giorni dopo, si percepisce la voglia diffusa di ricominciare. Ancora in riva al mare. Senza paura. © Il Sole 24ORE RIPRODUZIONE RISERVATA

[P2 I, 3]

Quando il forno crematorio si chiude dietro il corpo del padre, la figlia piange: “l ‘unica scena di pianto e disperazione che ho visto in questi giorni lungo le tappe di un cataclisma biblico, da Miyako a Yamada, da Kesennuma a Otsuchi. Così come – scusate, forse non sono stato bravo come altri – non ho visto alcun terrore diffuso della radioattività a Tokyo”

IL GIAPPONE PROVA A RIPARTIRE. A FUKUSHIMA È ANCORA EMERGENZA.

SPIE ACCESE SU 21 CENTRALI

21 marzo 2011, da YAMADA (provincia di IWATE) [pubblicato online]

CHIHARU (“Mille Primavere”) – Chiharu Miyamoto è una bambina di 11 anni sopravvissuta alle onde che hanno travolto la cittadina dove vive, Yamada, provincia di Iwate. Si è salvata perché si trovava a scuola, che è in una parte del villaggio meno direttamente esposta sul mare. Ha vissuto una odissea: per due giorni non ha potuto abbracciare i genitori, che per fortuna sono riusciti anch’essi a sfuggire alla furia delle onde perché non erano in casa. Dove c’era la loro abitazione, adesso c’è uno spiazzo con bassi detriti: la casetta, che non era in muratura, è stata letteralmente spostata di un centinaio di metri. Sua madre Masako ha la mascherina sul viso per proteggersi dalla polvere: sta cercando tra le macerie qualcosa di recuperabile. Trova un vasetto di ceramica, richiama l’attenzione di sua madre (la nonna di Chiharu) e le chiede un parere forse vincolante: «Questa possiamo tenerla?». Tutt’intorno non si vede che devastazione. Masako accarezza la sua bambina e dice: «In questa situazione, i bambini come Chiharu apprenderanno una lezione di vita. Impareranno che l’ambiente va rispettato e che nulla deve essere sprecato. Non usciranno di casa lasciando la luce accesa». Ai primi cioccolatini che vede da 10 giorni, Chiharu, prima di accettarli, guarda la madre per ottenerne il consenso. La signora appare per un momento incerta, non sa se chiedere «Grazie, quanto viene?», e poi incoraggia la figlia. Che fa un piccolo inchino. «Arigatou», grazie. Dove ci si aspetterebbe di trovare disperazione, l’incontro è con dignità e forza d’animo.                                                                      

HIROKI – Hiroki Sasaki ha 27 anni e veste una casacca di volontari per i soccorsi di Miyako, villaggio poco più a nord di Yamada e altrettanto distrutto. La sua casa è rimasta in piedi, protetta da un cavalcavia dove si è incastonato un grande peschereccio. Mostra una corda che pende dal primo piano: «Mio nonno ha cercato disperatamente di aggrapparsi a questa corda, ma non ce l’ha fatta. Povero nonno, è rimasto aggrappato per qualche minuto, poi è caduto giù e l’acqua l’ha portato via. Davanti a mia madre e mia sorella, che erano sul terrazzo». L’interno dell’abitazione è un caos e Hiroki sta cominciando a sgombrare alcune suppellettili ormai inservibili. «Per fortuna adesso non stiamo in un centro per rifugiati: a 25 km da qui ci sono i nonni. Hanno anche un orto da cui possiamo prendere un po’ di verdure. Sono arrivato adesso da lì con la mountain bike». Parla come se la casa non fosse la sua, ma una delle tante in cui sta entrando come ausiliario dei vigili del fuoco. Lavorava in una società di telefonini: «Chissà quando potrò ricominciare. Comunque qui intorno c’è tanto da fare». Arriva il padre Yoshiaki, 59 anni: «Italia? Sofia Loren! Mastroianni! himawari!», riferendosi al film “I girasoli” tanto famoso tra la sua generazione. Si aspetta qualcosa dal governo per ricostruire la sua casa? «Mi piace sperare ma non credo che accadrà. Mi sto organizzando da solo. Tutti sanno che il governo ha già un deficit enorme». La famiglia Sasaki, insomma, dopo un lutto e la casa distrutta sa ancora pensare al disavanzo statale e pare che si vergognerebbe un po’ ad aggravarlo.                                                                                                                           

IL BONZO – È giovane, avrà intorno ai trent’anni, Keita Ishigamori. Indossa gli zoccoli e una veste nera con una mantellina gialla. Ha in mano un inquietante bastoncino marrone a tre dita ripiegate: è lo strumento per il “michibiki” con cui si richiama l’attenzione delle anime di chi è deceduto, che vagano e non sanno dove andare. È il religioso buddista addetto ai funerali nel crematorio che si trova dietro un grande tempio, su una collinetta appena al di sopra dell’apocalisse di Yamada. Il tempio non ha dato ospitalità agli sfollati. Ishigamori fa cinque cerimonie al giorno, con un approccio che sembra burocratico: cinque minuti di litanie quando arrivano i parenti e prima che la bara venga introdotta nel forno, cinque minuti un’ora e mezza dopo (quando il forno si riapre e i parenti levano frammenti di ossa con i bastoncini per riporli nell’urna che porteranno a casa per qualche giorno, prima di portarla al cimitero). Il religioso conferma che le autorità stanno predisponendo un terreno in cui seppellire i cadaveri che non si riesce a cremare, anche per carenza di kerosene. Una pratica che i giapponesi trovano ripugnante. Ma se manca il ghiaccio secco e non ci sono abbastanza “body bags”, i cadaveri non possono aspettare. Quando il forno si chiude dietro il corpo di suo padre, una ragazza piange e si dispera. L’unica scena di pianto e disperazione che ho visto in questi giorni lungo le tappe di un cataclisma biblico, da Miyako a Yamada, da Kesennuma a Otsuchi.

Così come – scusate, forse non sono stato bravo come altri – non ho visto alcun terrore diffuso della radioattività a Tokyo. © Il Sole 24Ore RIPRODUZIONE RISERVATA

[P2 I, 4]                                                                         

REPORTAGE

Arrivare a Kawamata non è facile, nemmeno con un permesso speciale che consente di imboccare l’autostrada del Tohoku, tenuta a disposizione solo per i soccorsi e per una distribuzione ancora insufficiente. Il problema principale è la benzina  

L’INCUBO DEL CIBO RADIOATTIVO. VIAGGIO TRA I PROFUGHI DEL NUCLEARE A 45 CHILOMETRI DA FUKUSHIMA                                                                      

22 marzo 2011, da KAWAMATA (provincia di Fukushima)  [pubblicato sul quotidiano e online]                                                                                      

Tre calamità in un colpo solo e una quarta, forse, in arrivo. Sono piombate sui 151 profughi della centrale di Fukushima ospitati nella palestra della scuola elementare di Kawamata, che sulla cancellata d’ingresso porta il cartello di “tutto esaurito, non possiamo accogliere più nessuno”. Sono per lo più anziani e donne, poi bambini e giovani adulti. Vengono dalla cittadina costiera di Namie, che ha avuto il torto di essere troppo vicina al mare e alla centrale della Tepco. Terremoto e tsunami; uno sfollamento nel primo entroterra e poi il diktat del governo: evacuazione almeno a 20, o meglio oltre i 30 chilometri. A qualche giorno dal loro arrivo alla nuova destinazione, si materializza un altro allarme: Kawamata – che sta a 45 km dal mostro – è diventata suo malgrado famosa nel mondo perché, per la prima volta nella storia del Giappone (parola del ministero della Sanità) sono state rinvenute tracce di contaminazione alimentare: nel latte. Non passa un giorno e livelli anomali di iodio 131 sono rinvenuti in volumi tre volte superiori ai limiti legali nell’acqua del paese vicino di Iidatemura, mentre a Kawamata le rilevazioni risultano inferiori ma ben oltre il normale. Anche alcune verdure hanno evidenziato che le radiazioni stanno entrando nella catena alimentare. Il governo smentisce che si sia al punto di un «immediato» rischio concreto per la salute umana, ma di fronte all’allarme internazionale – arrivato dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità – ha deciso ieri di bandire la commercializzazione di spinaci e kakina (un vegetale a foglie) provenienti da tutta la provincia di Fukushima e da quelle limitrofe di Ibaraki, Tochigi e Gumma. A Iidatemura ha inoltre inviato camion di acqua in contenitori, raccomandando di non bere dal rubinetto.                                                                                                        

Arrivare a Kawamata non è facile, nemmeno con un permesso speciale che consente di imboccare l’autostrada del Tohoku, tenuta a disposizione solo per i soccorsi e per una distribuzione ancora insufficiente. Il problema principale è la benzina: occorre fermarsi quasi a ogni distributore, ci si può rifornire solo per un massimo di 2mila yen (18 euro). Alle stazioni di servizio non c’è più cibo: solo tante confezioni-regalo di mochi (un tipico dolce pastoso). Si passa per il capoluogo Fukushima mentre cala un buio pesto. Al ristorante Marumatsu, Yuya Fujita, 31 anni, e la fidanzatina Ai Motokawa, 21, non sembrano aver paura dell’acqua, visto che stanno sbafando una soba immersa nel brodo. Né temono perché gli americani hanno detto che questa zona è pericolosa in quanto sta dentro un raggio di 80 km dalla centrale: «Gli stranieri sono dei fifoni, sono scappati anche da Tokyo». Il manager del locale ha più timori: «Se questa storia dell’acqua radioattiva arriva fin qui, dovremo chiudere».  

All’ingresso di Kawamata, un 7-Eleven (minimarket) si presenta con due scritte piazzate sui finestroni: “Non demordere, Tohoku. Reagisci da par tuo, Fukushima”. All’interno gli scaffali sono quasi vuoti. «Il latte non ci è arrivato dal giorno del terremoto», dice l’inserviente Yui Shioya dietro una doppia mascherina protettiva. «Ora non arriverà più, è stato bandito. Che botta per i produttori». Nella palestra della scuola non c’è rumore né confusione né puzza. In un angolo si fa la raccolta differenziata per sei: tappi, plastica, vetro, lattine, umido e combustibile.I volontari locali stanno dando una mano e il cibo, sia pure monotono (riso, pane, cup noodles), è fornito regolarmente. Il riscaldamento è assicurato da stufette a kerosene e ci sono coperte in abbondanza: tutto quello che manca ancora agli sfollati dello tsunami più a nord. «Ho perso la casa – dice Takeo Kawasaki, 52 anni, pescatore – la barca, il lavoro. E poi, chi vorrà più il pesce di Namie?». «La Tepco non ci ha chiesto nemmeno scusa», afferma Hiromasa Chiba, quarantenne con moglie sdraiata al fianco. «Il governo non ci ha detto nulla, ma se otterremo qualcosina sarà da Tokyo e non certo da quelli là». Un signore che non dà il nome fa capire di essere un operaio della centrale. Ha paura a tornare, ma l’hanno richiamato: «Non posso perdere il lavoro». Sembra di capire che non sia nemmeno assunto a tempo indeterminato: a quanto pare, il gestore dei reattori non ha perso lo scandaloso vizio di far fare lavori pericolosi a personale semiprecario e magari non molto qualificato. 
«Qui bevono tutti l’acqua del rubinetto, non abbiamo istruzioni diverse», dichiara il funzionario comunale di turno Mitsumasa Sato. «Non ho nulla da fare, voglio tornare a lavorare nei miei campi», dice con aria più combattiva che depressa la signora Ko Yamada, che dimostra tutti i suoi 78 anni e non sa che d’ora in poi sarà ben difficile poter vendere le sue verdure. Le luci dovrebbero spegnersi alle 22, i bambini hanno sonno. Ma nessuno protesta se il collega Pio D’Emilia di SkyTg24 chiede, con il dovuto rispetto, un’altra mezzora per la diretta. © Il Sole 24Ore RIPRODUZIONE RISERVATA

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